Sono i bambini dell’asilo di Hombolo, in una regione del centro della Tanzania. Più di 200. E quella era la mia maglietta alla fine della mattinata, dopo gli abbracci, le carezze, i tentativi di salirmi in collo e di dimostrarmi l’affetto e la gioia, il rispetto e la curiosità; dopo il girotondo ed i canti, dopo il gioco della staffetta, dopo il saluto che porterò sempre nel cuore. Non avrei mai voluto lavarla; era carica e pesante di polvere, colorata della terra africana, disegnata con le loro manine, impregnata di amore e dignità. Due di quelle manine non potranno più giocare con nessuno, portate via dalla dissenteria e dalla disidratazione: mi sento chiudere lo stomaco; penso alla disperazione di Maria Carla, che lì vive dedicandosi completamente a loro; penso con le lacrime agli occhi che vorrei tornare là, e riprendermeli in collo uno per uno, per correre ancora con loro e condividere quei pochi minuti di serenità, in bilico fra l’illusione di poter far qualcosa di buono e di utile, e la consapevolezza che non ne sarò capace fino in fondo. Mi guardo intorno:nella mia stanza vedo decine di oggetti che valgono molto di più di quello che sarebbe bastato a salvare Jafari, un euro, e in fondo non riesco neppure a capire bene a cosa mi servano veramente. Mi duole il cuore. La maglietta è stata lavata, infine, ed ora profuma di pulito ;stasera me la infilo per andare a dormire, e per immaginare Jafari che da qualche parte nel cielo è finalmente felice.
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